Intervista a Paolo Pileri, docente di pianificazione e progettazione urbanistica del Politecnico di Milano.
Il suolo è un bene prezioso, anche se spesso non ce ne accorgiamo. Ogni anno, in Italia e in ogni parte del mondo, vaste porzioni di territorio vengono consumate e perdute per sempre a causa delle attività antropiche, che si tratti di urbanizzazione o di pratiche agricole intensive. Queste ultime, in particolare, possono impoverire il suolo a causa dell’uso di pesticidi, alterandone le caratteristiche e il suo carattere ecosistemico. Ma qual è la reale situazione in termini di danno all’ambiente? E quali azioni possono essere messe in atto, sia dai singoli sia dalle istituzioni, per evitare che questi fenomeni diventino irreversibili, rendendo il pianeta sempre meno vivibile per chi non dispone di risorse economiche sufficienti ad affrontare i cambiamenti climatici? Per rispondere a queste domande, abbiamo intervistato un esperto della materia, il professor Paolo Pileri, docente di Pianificazione e Progettazione Urbanistica presso il Politecnico di Milano. Nel corso della sua carriera accademica, ha contribuito alla ricerca con numerosi articoli e ben quattro libri dedicati al tema della protezione del suolo, tra cui “L’intelligenza del suolo” e il più recente “Dalla parte del suolo: l’ecosistema invisibile” edizioni Laterza. Il professor Pileri ci ha aiutato a capire cosa s’intenda per suolo e quale sia il significato del concetto di protezione del suolo, strettamente connesso alla più ampia transizione ecologica.
Ci vuole innanzitutto fare l’introduzione alla sua figura professionale e in particolare degli studi che porta avanti…
Da molti anni, nell’ambito delle discipline di pianificazione urbanistica, mi occupo della base di tutto: il suolo. Ho una formazione ambientale e sono laureato in una disciplina che, purtroppo, non esiste più, chiamata Ingegneria per la Difesa del Suolo. Insegno sia a Ingegneria che ad Architettura, nei miei studi mi sono dedicato a capire cosa sia questo straordinario strato di terra, sopra il quale gli urbanisti, spesso senza pensarci troppo, disegnano lo sviluppo delle città. È importante rifletterci, perché questo strato è un ecosistema prezioso e non rinnovabile. Su questi temi, negli anni, ho costruito una solida bibliografia e ho condotto ricerche, anche a livello europeo, inoltre ho pubblicato quattro libri su questo argomento. L’ultimo, uscito da poco, si intitola ‘Dalla parte del suolo’, Edizioni Laterza. Attualmente, collaboro con diversi paesi europei in una ricerca che riguarda proprio le questioni legate al suolo e al suo consumo, con l’obiettivo di comprendere quali siano le minacce che lo aggrediscono, lo degradano e lo cementificano, portandolo, in sostanza, alla distruzione. Questo rappresenta un problema molto serio, sia in Italia sia in Europa, e sono in corso varie ricerche che mirano a spingere la UE a introdurre una direttiva contro il consumo di suolo.
In che modo il suolo viene colpito dalle attività antropiche? Il suolo talvolta, ha capacità rigenerative e in che misura?
Il suolo ha una certa capacità rigenerativa, ma è estremamente lenta:
Basti pensare che per formare 10 cm di suolo sono necessari circa 2000 anni. Questo significa che i tempi di rigenerazione sono geologici, e non possono di certo rassicurarci.
Questo è il primo grande punto di vulnerabilità del suolo, che però dovrebbe costituire per noi un segnale di attenzione, dato che gli esseri umani sono i principali aggressori della natura. Il suolo è un ecosistema complesso, composto da equilibri e interazioni tra la biomassa e la vita che vi è contenuta. Questi equilibri possono essere facilmente sopraffatti e alterati in base agli usi che facciamo del suolo. Ad esempio, l’agricoltura convenzionale – quella che vediamo comunemente, spesso senza porci troppe domande, e che fa uso di trattamenti chimici – rappresenta il 90% dell’agricoltura italiana. I trattamenti chimici utilizzati, come gli erbicidi, finiscono nel suolo, alterando la biomassa e la vita degli organismi che vi abitano. Un erbicida non si limita a eliminare le erbe infestanti, ma distrugge anche batteri e funghi che vivono nel suolo e consentono alla vegetazione di crescere. Da questo punto di vista, il suolo agricolo è fortemente minacciato. Poi c’è il problema dell’inquinamento dovuto agli sversamenti, e infine il danno più grave: la cementificazione, che azzera completamente ogni possibilità di recupero dei suoli. Per ripristinare un suolo cementificato bisognerebbe rimuovere l’asfalto e attendere decine, se non centinaia, di anni affinché il suolo si rigeneri. La cementificazione è quindi la forma di aggressione più letale per il suolo.
Parliamo delle conseguenze del consumo del suolo in rapporto agli eventi estremi che, a causa dei cambiamenti climatici, sono sempre più frequenti, vediamo quello che è successo questo e lo scorso anno in Emilia-Romagna e in alcune zone della piana fiorentina, o al recente disastro nella Comunità Valenciana. Quanto il consumo del suolo da una mano a questi eventi ad accentuare i danni che possono causare?
Di mani in questi casi gliene ha date due. Il consumo del suolo, infatti, amplifica notevolmente gli effetti dei cambiamenti climatici e dei fenomeni meteorologici estremi. L’urbanizzazione incontrollata altera, infatti, gli equilibri climatici: sappiamo tutti che le città sono enormi isole di calore, vere e proprie ‘padelle’ che rimangono sempre calde. L’asfalto si riscalda, e la città stessa diventa una fonte di emissione di calore e CO₂. Quindi, da una parte, il consumo del suolo contribuisce ad aggravare il cambiamento climatico e, dall’altra, rende il territorio più fragile a causa della massiccia urbanizzazione, in particolare degli ultimi 20-30 anni. Oggi le precipitazioni sono diverse, spesso più intense e concentrate, e trovano un territorio più debole su cui riversarsi, amplificando così gli effetti disastrosi. Quanto avvenuto in Emilia-Romagna, a Campi Bisenzio e recentemente nella Comunità Valenciana è un chiaro esempio di come l’urbanizzazione contribuisca a moltiplicare danni e vittime. In questi giorni, per esempio, sono comparsi articoli che riportano come la Comunità Valenciana, negli ultimi 20 anni, abbia intensificato l’urbanizzazione in modo incontrollato, e molti dei danni recenti si sono verificati proprio in aree dove il fiume, in caso di esondazione, avrebbe avuto bisogno di spazio per disperdere l’acqua. Ma questi spazi non ci sono più: sono stati occupati, e il fiume, non trovandoli, ha invaso altre aree con una forza distruttiva impressionante, devastando tutto ciò che incontrava.
Ogni nuova costruzione in luoghi inadatti è un ‘colpo di martello sui piedi’. Questo è successo ampiamente anche in Romagna, dove l’80% del consumo del suolo negli ultimi 20 anni è avvenuto su aree alluvionabili; lo stesso vale per la piana fiorentina e per il valenciano. Dobbiamo chiederci: come è possibile che, in Europa, con una popolazione stabile, stiamo ancora costruendo e ingrandendo le città a ritmi che in alcuni casi sono addirittura a due cifre.
Cosa dovrebbero fare le istituzioni a livello italiano ed Europeo per quantomeno limitare i danni derivati da consumo del suolo?
Le istituzioni, ricordiamolo, sono composte da persone che vi lavorano e che hanno scelto volontariamente di guidarle: qui entra in gioco la responsabilità di ciascuno.
Penso alla politica, ma anche a noi ricercatori, che dovremmo farci sentire di più e impegnarci a produrre più consapevolezza.
Dobbiamo occupare la scena pubblica con una voce più alta, spiegando i meccanismi causa-effetto che non sono chiari a chi governa il territorio. Chi prende decisioni sul territorio non deve solo fare, ma anche ‘non fare’: in questo caso, si tratta di fermare il consumo del suolo, poiché limitarlo non è sufficiente. Lo abbiamo visto in Emilia-Romagna, dove una legge regionale (24/2017), che sembrava tra le migliori a detta degli estensori, prevedeva un contenimento del consumo di suolo ma non uno stop totale, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Il nostro paese, che da sempre ha un territorio fragile, investe ridicolmente poco nella sua difesa. Lavorando su alcuni dati, scopro che spendiamo per la difesa del suolo cinque volte meno rispetto a quanto investiamo nel post-calamità e nella protezione civile. Questo rapporto è quasi il doppio, ovvero otto volte meno, nei piccoli comuni sotto i 5000 abitanti, che gestiscono comunque la maggior parte del suolo italiano.
C’è dunque una grave mancanza di responsabilità e consapevolezza: si preferisce investire altrove. Per esempio, spendiamo tredici volte meno per la protezione del suolo rispetto ai fondi destinati a mantenere in ordine l’ufficio anagrafe e i seggi elettorali. Con il 70% del suolo italiano su un piano inclinato e fragile, ci stiamo letteralmente martellando sui piedi.
Pensa che certe decisioni siano frutto di mancanza di consapevolezza o di interessi economici?
Questi non sono semplici interessi economici, ma veri e propri egoismi, è giusto chiamarli così: sono ‘mal di pancia di profitto’. Si tratta di meccanismi avidi che puntano a grandi profitti a spese della natura e della collettività. Quando si verificano alluvioni e disastri, i danni li subiamo tutti, mentre il profitto va a una o due persone. Anche su questo punto le istituzioni spesso fingono di non vedere. La nostra Costituzione italiana, scritta in tempi non sospetti, mirava a prevenire eventuali egoismi derivanti da derive autoritarie e poneva attenzione a temi come la tutela del suolo. Eppure, oggi, questi principi fondamentali vengono completamente disattesi dalle istituzioni.
Se dovesse scrivere una legge sulla difesa del suolo, quali sarebbero i punti base?
In realtà, una proposta di legge l’abbiamo già formulata. Il primo articolo prevede uno stop immediato al consumo del suolo: una vera e propria moratoria. Bisogna fermarsi e fare una ricognizione accurata di tutto ciò che esiste e non viene utilizzato. È gravissimo che, ad oggi, non ci sia un censimento che indichi quanti appartamenti, capannoni e spazi commerciali risultano vuoti nelle nostre città. Occorre lavorare per incentivare il riuso e la ristrutturazione di questi spazi inutilizzati. Un altro aspetto fondamentale è riequilibrare il territorio. Negli ultimi decenni abbiamo spostato la popolazione dalle campagne alle grandi città, ma ora dobbiamo tornare a redistribuirla, anche nelle aree periferiche. Serve una narrazione che valorizzi la possibilità di una vita soddisfacente anche in un piccolo comune appenninico, per esempio. Non si tratta solo di una legge sul suolo, ma di invertire una tendenza urbanocentrica che ha riempito le città all’inverosimile e svuotato le aree rurali, dove l’agricoltura, l’artigianato e la popolazione stessa sono stati abbandonati. È necessario agire anche a livello di diritto amministrativo, ad esempio rendendo più agevole per i sindaci la pianificazione urbanistica, evitando ricorsi e denunce. Oggi i Sindaci temono tutto, tranne l’aumento del numero di abitazioni. Il suolo deve essere considerato per quello che è: non una risorsa da sfruttare, ma un ecosistema da proteggere. E a chi invoca l’autonomia differenziata, bisogna rispondere che la tutela degli ecosistemi deve restare una competenza statale, non locale. Attualmente, il destino del suolo è quasi interamente in mano ai comuni, ma questo approccio è oggi non più compatibile con la storia climatica ed ecologica del tempo presente.
Ci vuole parlare infine di un aspetto non ancora emerso che però è presente nel suo nuovo libro ‘Dalla parte del suolo’?
Mi piacerebbe mettere in luce il messaggio della copertina, che presenta acquerelli di Walter Kubiena, che è stato nel secolo scorso un appassionato scienziato del suolo, ma anche un abile artista. Questo esempio ci ricorda l’importanza di usare linguaggi più accessibili per spiegare le problematiche ambientali, perché altrimenti queste non trovano spazio nell’immaginario comune, tanto meno tra chi governa il territorio. Dobbiamo coinvolgere anche gli artisti per dare voce a chi non ha voce. Nel libro ci sono due capitoli chiave: uno su cosa rappresenta “stare dalla parte del suolo” e l’altro sugli elementi che ne minacciano la sopravvivenza. Anche quelli che a noi appaiono come interventi ‘green’, spesso, da una prospettiva del suolo, non lo sono. Inoltre, ricordo la figura di Luigi Einaudi, Presidente della Repubblica, che visse in prima persona il disastro del Polesine e non solo visitò le aree colpite, ma rimproverò il Presidente del Consiglio dell’epoca, Alcide De Gasperi, spronandolo a dare risalto a quello che definì il massimo dovere civile del Paese: la difesa del suolo. Dopo di lui, nessuno più si è interessato con la medesima passione e sensibilità.
In generale, dobbiamo riconoscere che più rimandiamo l’azione, più soffriremo. Una vera transizione ecologica dovrebbe farci provare un certo disagio: se non fa venire il ‘mal di pancia’, non è una vera transizione. Agire adesso significa ridurre le sofferenze future, sia per noi che per le prossime generazioni. Altrimenti, solo chi ha risorse economiche sufficienti riuscirà a superare le difficoltà, mentre gli altri saranno costretti a subire le conseguenze della nostra inazione.
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