Intervista all’esperta Annalisa Buffo del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Torino e del NICO.
Negli ultimi decenni si è assistito all’aumento esponenziale di diverse patologie ed in particolare di quelle neurodegenerative, tra le più note il Par kinson e l’Alzheimer o diverse patologie autoimmuni. Spesso si tende ad individuare come responsabile numero uno di questa situazione l’invecchiamento della popolazione e l’allungamento dell’età media. Ma non tutti sono concordi su questa visione e puntano il dito a fenomeni di natura antropica, come l’inquinamento atmosferico, specialmente nelle aree urbane delle grandi città o in realtà fortemente industrializzate e con caratteristiche geografiche che non permettono un adeguato ricambio d’aria, come possono essere la Pianura Padana. Tra gli istituti di ricerca che conducono studi proprio su questi argomenti – con l’obbiettivo di fare luce su delicati temi che investono la salute delle persone – ci sono anche il NICO (Neuroscience Institute Cavalieri Ottolenghi) e il Dipartimento di neuroscienze, Rita Levi Montalcini dell’Università di Torino che conducano studi proprio su questi argomenti, proprio per fare luce su questi delicati e dolori temi che investono la salute delle persone. Natural Mania è andata ad intervistare la professoressa Annalisa Buffo, che proprio al NICO, guida un gruppo di ricerca, e capire a che punto la ricerca è arrivata a stabilire una correlazione effettiva tra determinate patologie e l’inquinamento atmosferico.
Facciamo ora una presentazione della sua figura professionale e delle ricerche che porta avanti…
Io sono Professoressa associata di fisiologia all’Università di Torino, lavoro presso il Dipartimento di Neuroscienze e sono anche vice Direttore dell’Istituto di Neuroscienze (NICO) della Fondazione Cavalieri Ottolenghi, che ha sede vicino a Torino, a Orbassano. Con il mio gruppo di ricerca studiamo il funzionamento fisiologico e patologico delle cellule gliali. Siamo interessati a queste cellule che non sono neuroni ma formano circa metà del sistema nervoso, e con la loro attività influenzano profondamente il funzionamento dei neuroni. In parallelo, con altri progetti di ricerca, concentriamo molti sforzi nello studio delle cellule staminali umane: grazie a queste ultime sviluppiamo strategie di medicina rigenerativa per alcune malattie degenerative.
Entriamo nel vivo del tema dell’intervista, ovvero l’impatto dell’inquinamento atmosferico sulla salute umana. Esisto delle vostre ricerche che si occupano dell’aumento di alcune patologia? Se si, quali?
Il nostro gruppo di ricerca, come le dicevo, è interessato alle funzione fisiologiche delle cellule gliali e al loro contributo alla patologia. Abbiamo esaminato con molta attenzione una serie di dati epidemiologici che mostrano come l’esposizione persistente e cronica ad alti livelli di polveri sottili, il famoso PM (particulate matter), sia associata alla prevalenza di patologie autoimmuni in alcune popolazioni e in particolare sia associata ad una prevalenza di sclerosi multipla. Questa è una malattia cronica autoimmune, che colpisce il sistema nervoso centrale ed in particolare la guaina mielinica, lo strato di isolamento depositato da cellule gliali specializzate (che si chiamano oligodendrociti), intorno ai processi dei neuroni. La deposizione di questo strato isolante è fondamentale per la comunicazione ad alta velocità tra i neuroni all’interno dei circuiti. Nella sclerosi multipla questa guaina viene attaccata dagli anticorpi prodotti dai pazienti e il rivestimento isolante si deteriora. Questo processo, chiamato demielinizzazione, ha un grave impatto sul funzionamento del sistema nervoso e in alcuni casi – dove non c’è una riparazione efficace – porta alla degenerazione nel corso del tempo anche dei neuroni. I dati che hanno in particolare attratto la nostra attenzione mostravano come nei grandi centri urbani i picchi di concentrazione del famoso PM precedano sistematicamente i ricoveri ospedalieri dovuti o all’esordio della malattia o a recidive.
Questa osservazione riguarda la sclerosi multipla, ma anche altre patologie croniche di tipo autoimmune: da qui l’ipotesi che respirare questi inquinanti favorisca l’accentuarsi di fenomeni infiammatori o patologici che attivano una risposta autoimmune.
È noto come il particolato includa diversi tipi di sostanze, solide o liquide, tra cui alcune tossiche come metalli e idrocarburi, e questo tipo di inquinanti sono prodotti dalla combustione dei carburanti fossili. In particolare, alcune categorie di molecole presenti nel PM sono particolarmente pericolose: a causa della loro dimensione estremamente ridotta raggiungono infatti le vie respiratorie profonde, dove si fermano e producono localmente una forte infiammazione. Ora, il fatto che ci sia una grande infiammazione all’interno del polmone e nelle vie respiratorie farebbe pensare che l’esposizione a questi inquinanti promuova il manifestarsi di malattie dell’apparato respiratorio e di fatto è così. Questa infiammazione locale – in realtà – ha degli effetti pervasivi nel nostro organismo. È stato infatti scoperto da altri colleghi che le cellule polmonari inviano un segnale di danno, un segnale di attivazione a tutto il corpo attraverso il rilascio di vescicole extracellulari che portano nel loro contenuto segnali di infiammazione. Queste piccole vescicole sono presenti nel plasma, vengono distribuite attraverso la circolazione sanguigna e raggiungono tutti i distretti corporei: tra questi possono passare la barriera ematoencefalica che separa il nostro sistema nervoso dalla circolazione e dunque entrare anche nel sistema nervoso, dove rilasciano il loro contenuto. Quindi, sulla base di osservazioni di tipo epidemiologico e del meccanismo già scoperto di propagazione dell’infiammazione a seguito dell’esposizione a PM – a partire dai polmoni e nel resto del corpo incluso il sistema nervoso – ci siamo chiesti se e come l’esposizione a questo inquinante potesse modificare gli eventi dannosi e la patologia legata alla sclerosi multipla o in generale alle patologie che sono caratterizzate dalla perdita della mielina.
Come può secondo lei il singolo individuo proteggersi da questi pericoli invisibili?
Il mezzo di difesa più efficace sono tutti i tentativi messi in campo di porre un freno all’utilizzo degli idrocarburi nelle auto, tutto il discorso della transizione energetica è molto legato alla riduzione dell’esposizione al particolato urbano. Questi sono aspetti importanti che richiedono delle decisioni politiche, ma che ovviamente sono legati anche ai comportamenti individuali, alcune scelte che sono scomode lo sappiamo oppure possono essere anche poco possibili per ragioni economiche e l’individuo deve chiedere che ci siano dei cambiamenti da una parte, mentre dall’altra si può prendere esempio dal comportamento di alcuni popoli orientali dove è comune l’uso delle mascherine, ecco queste sono i rimedi più immediati. Tra l’altro noi siamo anche informati dei picchi di PM nelle città, perché quando si superano i livelli di allarme viene proibita la circolazione di alcuni modelli di auto: è in quelle giornate che dobbiamo fare maggiormente attenzione e prendere le dovute cautele.
Quali sono i risultati degli esperimenti condotti dal vostro gruppo di ricerca?
Gli esperimenti condotti sotto la guida della professoressa Enrica Boda, hanno messo in luce – in particolare nei modelli pre-clinici – che l’esposizione al particolato ha effetti negativi sulla riparazione dei danni al tessuto nervoso: nello specifico sulla riparazione della guaina isolante della mielina, che viene perduta e attaccata nella sclerosi multipla, e in altri tipi di patologie cosiddette demielinizzanti. Grazie a questi esperimenti siamo riusciti a identificare un effetto particolare e specifico dell’esposizione al particolato che rallenta i fenomeni di riparazione. Quindi l’esposizione al particolato potrebbe rendere più difficile riparare il sistema nervoso danneggiato, compromettendo in maniera cronica la trasmissione dell’informazione tra i neuroni. In generale, un esposizione acuta possa indurre in un organismo maturo e adulto – degli effetti limitati nel tempo che poi possono essere riparati e compensati se l’esposizione termina. Se diventa cronica l’effetto di danno si accumula nel tempo, alcuni effetti possono diventare perduranti e agire sui meccanismi riparativi in maniera irreversibile. Potrebbero poi esserci dei danni irreversibile in caso di esposizione a livelli di inquinanti particolarmente alti, in particolare durante le fasi dello sviluppo dell’organismo – nello specifico del cervello – che inducono dei cambiamenti nel sistema nervoso che poi non vengono più riparati, anche se le condizioni ambientali nel frattempo ritornano salutari.
Nelle vostre ricerche quali sono le tecniche sperimentali che vengono utilizzate?
Ci sono delle nuove frontiere, ma vorrei sottolineare che i modelli preclinici in vivo restano fondamentali per valutare effetti tossici o metabolici di diversi sostanze in organismi complessi. In parallelo, diventa sempre più interessante e importante usare dei modelli in vitro di cellule umane ottenute da cellule staminali pluripotenti, che hanno cioè la capacità di diventare tutte le cellule presenti nel nostro corpo, di formare tutti i tessuti del nostro corpo. Per esempio, queste cellule possono essere indirizzate a formare cellule nervose in provetta, possono formare strutture abbastanza complesse tridimensionali. Posso confermare che, anche nei nostri esperimenti, questi modelli offrono opportunità inimmaginabili fino a pochi anni fa di riuscire a studiare certi fenomeni direttamente in cellule nervose umane. Questa è un parte dell’innovazione tecnologica attuale, un’altra parte riguarda la profondità dell’analisi, per esempio dell’espressione delle proteine o dei geni, che ora viene condotta addirittura a livello di ogni singola cellula presente in u tessuto o in una provetta.
Intendo dire che oggi esiste la possibilità di guardare dentro ciascuna cellula e capire quali geni esprime.
Questo nuovo approccio di analisi all’interno di ciascuna singola cellula offre la possibilità di approfondire enormemente la risoluzione delle analisi che vengono condotte. Ci si può immaginare che questo tipo di approccio – assieme all’uso dell’intelligenza artificiale per identificare marcatori preventivi di malattia, o candidati causativi di malattia, o ancora per migliorare la diagnosi della malattia – abbia delle potenzialità finora non presenti e molto innovative. È auspicabile pensare che l’interazione di queste nuove tecnologie, che ora sono a nostra disposizione, possa produrre un salto di qualità nella ricerca. Dobbiamo comunque essere consapevoli che dalle scoperte della ricerca fondamentale (l’ambito all’interno del quale noi lavoriamo), alla ricerca traslazionale e poi all’applicazione clinica sull’uomo sono necessari – di norma – decenni. Queste nuove tecnologie potrebbero in parte accelerare anche questi processi.
I tempi della scienza ha detto che sono necessariamente lunghi. Le vostre ricerche riguardano altri ambiti hanno ottenuto riscontri che poi sono tradotti in provvedimenti?
Se ci riferiamo in generale allo studio degli inquinamenti ambientali, sia l‘Istituto di Neuroscienze NICO, che tutto il Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Torino è molto coinvolto nello studio delle influenze negative ma anche positive dell’ambiente in cui viviamo. Per esempio, al NICO i professori Stefano Gotti e Marilena Marraudino hanno studiato per molti anni l’azione dei distruttori endocrini – detti anche interferenti endocrini – che sono presenti in moltissime sostanze, nella plastica per esempio, o negli scontrini, che noi maneggiamo continuamente. Hanno studiato a lungo l’effetto di queste sostanze nella maturazione e nella produzione di ormoni gonadici, e l’impatto di queste sostanze per esempio nella riproduzione, scoprendo che causano dei disturbi della differenziazione sessuale e nella formazione dei genitali. Sicuramente questi studi – assieme ad altri – hanno portato alla regolamentazione a livello europeo dell’utilizzo di queste sostanze e alla limitazione delle quantità che è permesso incorporare in oggetti di uso quotidiano. Altri studi sono meno avanzati, come il nostro sugli effetti del particolato ambientale sulle malattie debilitanti, o altri studi condotti dal Dipartimento che guardano alla correlazione tra l’esposizione di aree coltivate e l’incremento del rischio di contrarre una malattia neurodegenerativa chiamata sclerosi laterale amiotrofica (SLA). I colleghi guidati dai professori Adriano Chiò e Umberto Manera hanno scoperto che esiste una correlazione positiva. Il nostro ruolo come scienziati è mettere in evidenza degli elementi correlativi e, auspicabilmente, causativi, e presentarli poi ai decisori politici in maniera che vengano prese le corrette misure. Quando si parla di inquinanti ambientali questo è il ruolo della ricerca: mettere in evidenza degli elementi di rischio in maniera che i decisori politici siano informati e possano mettere in atto, se possibile, delle decisioni operative. Un altro gruppo nel nostro Dipartimento, guidato dal professor Maurizio Giustetto, studia l’impatto di alcuni erbicidi, come il glifosato per esempio, che utilizzabile in proroga a concentrazioni controllate e dal 2016 è vietato in zone ad alta densità abitativa. I loro studi in provetta mostrano che i livelli consentiti di glifosato alterano la comunicazione tra neuroni: si tratta di un dato che può essere utile – se correttamente presentato, sostanziato in un lavoro scientifico – per stimolare delle decisioni di tipo politico in Europa, e possibilmente nel mondo, rispetto al mantenimento o meno dell’utilizzo di questo erbicida, che ha dei vantaggi perché è considerato a ridotta tossicità ed a ridotta penetrazione nel terreno. Altri tipi di studi vengono condotti nel nostro Dipartimento in collaborazione con alcuni psichiatri, guidati dalla professoressa Paola Rocca, ed i ricercatori di base, guidati dal professor Alessandro Vercelli e dalla professoressa Marina Boido, guardano all’ambiente e all’esposizione al verde per sviluppare degli approcci terapeutici. In particolare, i colleghi citati sono impegnati in uno studio dove analizzano gli effetti del verde, inteso come terapia non farmacologica, complementare, nei soggetti che soffrono di depressione. Stanno seguendo un gruppo di pazienti con depressione diagnosticata che si sono prestati ad esporsi alla frequentazione di aree verdi in città. Questi soggetti vengono monitorati per diversi parametri metabolici/funzionali oltre che per il decorso della loro malattia. Al momento i risultati sono preliminari, ma mostrano un effetto positivo sulla salute e sul benessere soggettivo con una diminuzione dei sintomi depressivi legata a tutto ciò che significa esporsi al verde, uscire di casa per andare a godere della natura di un parco. L’ipotesi è almeno una parte di questi effetti sono dovuti a una liberazione di alcune molecole – che appartengono alla famiglia dei terpeni – che si comportano come agenti antinfiammatori e antidepressivi. La dimostrazione dell’agente molecolare sarà uno stadio successivo del lavoro. Per ora, i colleghi sono concentrati nel mettere in evidenza la possibile presenza degli effetti positivi di questa terapia comportamentale.
In tutti i casi, il percorso che parte dalla ricerca di tipo fondamentale e che va verso aspetti di tipo applicativo è lungo, anche perché – dopo il primo elemento essenziale che è la pubblicazione del risultato scientifico – la comunità scientifica si impegna per verificare quel risultato e si può essere smentiti, anche se si è pubblicato in buona fede.
Ci sono degli elementi intrinseci che rendono questo processo particolarmente lungo, altri elementi invece sono al di fuori della portata d’azione dei ricercatori di base: pensiamo ad esempio ad altri tipi di expertise quando si passa dalla trasformazione della scoperta in farmaco, e poi ancora agli studi clinici del farmaco oppure quando si entra nell’alveo delle responsabilità dei decisori politici. Non ci si può aspettare che la ricerca di base produca da un giorno all’altro risultati dei quali la popolazione possa godere. Ma se non si parte dalla ricerca di base, non si possono avere nuovi risultati e non si produce nessun tipo di innovazione.
Quindi quai sono i principali step della ricerca prima essere a portata di tutti?
Nell’ambito che stiamo discutendo il primo è senz’altro verificare se ci sono effetti dannosi sulla salute, per esempio degli inquinanti presenti nell’ambiente. Se invece le scoperte della ricerca di base suggeriscono lo sviluppo di nuovi approcci terapeutici – o identificano sostanze potenzialmente terapeutiche – a quel punto entrano in gioco altri livelli di ricerca: entrano in gioco colleghi competenti nel cercare applicazioni transazionali, e, successivamente colleghi clinici che studiano l’impatto del trattamento o della sostanza identificata sui pazienti. Ecco, tutto questo processo si sviluppa nel corso del tempo e può portare all’identificazione di un nuovo trattamento o di un nuovo farmaco. Spesso però si ferma prima, perché il processo funziona come un imbuto: si parte da tante conoscenze – ognuna delle quali offre una possibilità – e man mano che il processo di verifica e di validazione in modelli sempre più vicini all’uomo procede, si ha una selezione e si scartano tanti candidati che non funzionano via via, e si va avanti studiando quelli che possono agire come farmaci e poi questi ultimi richiedono di essere validati con studi sull’uomo. Ora sappiamo che tutto questo processo può essere compresso, se i dati iniziali di ricerca fondamentale sono molto chiari, molto strutturati, molto forti: ne abbiamo avuto testimonianza nella ricerca dei vaccini contro il Covid-19. Questa è un’eccezione che ha richiesto un investimento enorme dal punto di vista umano e di investimenti a fondo perduto che sono stati messi in campo da decisioni politiche, in modo da comprimere il più possibile i tempi di questo processo rigoroso di validazione che include sempre molteplici passaggi.
Proprio durante il Covid sono emersi in alcuni settori della società civile, in un numero non trascurabile di unità, posizioni antiscientifiche o di profonda diffidenza soprattutto verso i vaccini. Cosa si sente di dire a queste persone che hanno poca fiducia nella ricerca scientifica e che sono quantomeno scettiche?
Penso che ci sia un unico modo: spiegare come si fa scienza e lavorare sulla comunicazione. Se noi apriamo i nostri quotidiani possiamo imbatterci in articoli dove vengono annunciate scoperte straordinarie.
Il cittadino purtroppo viene tratto in inganno dall’enfasi con la quale queste notizie vengono comunicate, perché una parte del mondo di chi si occupa della comunicazione ha bisogno di far breccia nell’immaginario di chi legge e chi ascolta ed ha bisogno di essere un po’ sensazionalistico. Sarebbe importante concordare una modalità di comunicazione più attinente al risultato per sé del lavoro scientifico che si vuole presentare, che è sempre una verità parziale.
Spesso semplicemente il cittadino viene ingannato da questa comunicazione che non è molto precisa. Purtroppo è complicato spiegare i dettagli degli esperimenti e il peso specifico dei risultati. Si usano scorciatoie. È anche complicato spiegare che una certa scoperta potrebbe portare a curare ad esempio l’Alzheimer, ma questo processo si potrebbe bloccare dopo due mesi perché un collega in parallelo potrebbe pubblicare dati che contraddicono il mio risultato, prodotto in totale buonafede. Spiegare questa complessità al cittadino non è possibile, ma gli si può dire che la ricerca procede per approssimazione. Tutto è dubitativo. La produzione di un farmaco che abbia un effetto consolidato richiede tantissimo studio, tantissimi anni di osservazione dei risultati. Abbiamo tanti farmaci che sono certezze, per esempio la tachipirina. Siamo certi che non curi la malattia ma che abbassi la febbre si, ma ci sono voluti tanti studi prima e tante verifiche sull’uomo direttamente. Avrebbe potuto accadere che la tachipirina funzionasse benissimo ma che poi producesse danni ad alcuni organi, e questi aspetti si capiscono solo quando il numero di persone che assumono il farmaco diventa grande. Sarebbe meglio che il cittadino, se non lo fanno i giornalisti, si difendesse un po’ dal taglio sensazionalistico delle notizie. Purtroppo è molto brutto essere poi delusi. Ci si può anche sentire un po’ truffati nel credito che abbiamo dato a certi annunci letti sui giornali. Questo modo di fare notizia deve assolutamente scomparire in modo che venga ristabilita la fiducia tra chi fa ricerca e il cittadino. Basterebbe spesso aggiungere con dovuto risalto: ‘questo potrebbe significare un giorno noi cureremo la malattia con questo approccio, ma questo va tutto verificato’. Penso sia fondamentale aggiungere qualche elemento che ponga l’attenzione alla cautela che si deve avere nel trarre delle conclusioni, perché diversamente la presentazione della scoperta risulta semplicemente superficiale e non accurata. Questo aspetto sfugge spesso al controllo del ricercatore. Nella nostra cultura non c’è molta attenzione per questi aspetti, nella cultura anglosassone ce n’è di più, forse semplicemente sono più abituati a comunicare la scienza e quindi spero che si riesca anche qui ad essere tutti più sintonizzati.
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